girl driving in new zealand

Part 4: Nuova Zelanda, Wellington, 2 giorni

26 aprile 2015

Sto atterrando a Wellington, in Nuova Zelanda, dove girerò in macchina da sud a nord l’isola nord di uno dei paesi più vuoti al mondo, nonché privo di qualsivoglia tipo di animale predatore, patria del Kiwi (l’animale, cliccate sul link per capire quanto poco offensivo può essere, vi dico solo che il nome scientifico proviene dal greco e significa privo di ali) e dei Kiwi (i neozelandesi doc) e scoprirò bel presto che l’unica parola possibile per me per questa isola è Colori.

Flashforward Giugno 2015

Di solito il momento migliore per mettermi a scrivere coincide sempre con il post lezione di yoga o la mattina presto, al risveglio da una nottata di riposo profondo. E anche oggi è così: la lezione di hatha yoga appena terminata mi ha centrata di nuovo, il mio respiro è calmo e sento il corpo perfettamente bilanciato. Come dicevo a Ubud quando mi chiedevano quale fosse la mia parola per Bali: balance, ovviamente. Perché, dopo aver preso confidenza con i miei limiti e le mie paure in Australia, dopo aver avuto il momento Donna-Avventura entusiastica e affascinata dalla natura e dalle persone in Nuova Zelanda, ero arrivata a Bali per cercare di centrarmi. Ed è proprio quello che mi è successo.

Le giornate a Sydney mi hanno lasciata con un senso di stonamento generale, ovviamente positivo, e mi sento davvero giù all’idea di essere dovuta partire. Avrei voluto più tempo, forse anche più energie concentrate, per poter fare e vedere di più, ma non voglio distrarmi ora dal programma di viaggio, è tanto che aspetto di venire a scoprire la Nuova Zelanda e nulla mi rovinerà questa settimana qui.

(giugno 2015) Il fedele diario, che mi sta aiutando a ricostruire pensieri e posti (insieme alla preziosissima Apple agenda – deformazione professionale – ho scritto tipo tutto lì dentro per non rischiare di dimenticare codici e prenotazioni fatte di giorno in giorno), stavolta non viene in mio soccorso: ho fatto talmente tante cose ogni giorno che non ho praticamente mai avuto un momento per scrivere.

Sin dall’atterraggio a Wellington, di sera, mi ritrovo catapultata in una realtà completamente diversa da qualunque altra. Prendo un taxi per arrivare nell’ostello prenotato in centro, il Trek Global, e il tassista intanto mi racconta del fatto che, essendo stato Anzac day anche qui ieri, tutto il weekend è festa. Il mio ostello è alle spalle della via principale e mi consiglia quindi di andare a fare due passi, in fondo è solo mezzanotte. Sin dall’arrivo in reception mi accorgo che i viaggiatori che approdano in questa terra sono decisamente diversi da tutti gli altri incontrati finora: tutta la sala comune è tappezzata da volantini di bungee jumping, paracadutismo, salti da cascate, auto in vendita con annesso rimorchio in cui dormire (una delle cose meno legali che ho visto nella storia), e sopratutto richieste/offerte di passaggi in auto. E’ tutto esattamente come volevo, la stanza è carina e pulita, ora so come funzionano gli armadietti e non sveglio nessuno per lasciare le valigie in camera, fa freddo ma non troppo (dopo l’esperienza di Melbourne ormai nulla potrà più sconvolgermi climaticamente) e esco subito per strada.

trek-global-wellington
trek global wellington

Ok. Non fa freddo. Ma quando si racconta della Windy Welly (ventosa Wellington) bisognerebbe prendere più sul serio il WINDY: gli alberi sono praticamente tutti piegati a 45°, volano cose tutto intorno a me e dopo mezzora ho un forte mal di testa legato al vento. Aiuto. Ce la farò, ho centomilioni di pillole con me, penserò al mal di testa dopo la birra. Arrivo nel cuore del centro in Cuba Street e uno dopo l’altro vedo susseguirsi pub e locali gremiti di ragazzi festanti. Uno in particolare attira la mia attenzione: i Foo Fighters a tutto volume diventano il miele che mi attrae come un’ape.

Ordino una birra e mi siedo ad un tavolo di fronte al bancone, e solo in quel momento mi rendo conto della stranezza della situazione (tutta nel mio cervello): sono una ragazza di ventotto anni, seduta da sola in un pub a Wellington a mezzanotte, bevendo una birra e cantando tutte le canzoni che il dj ha deciso di passare. Credo sia la prima volta che mi capita una cosa così nella vita in vacanza (troppe volte per lavoro ho cenato da sola in hotel), mentre sono certa che in Italia (a Roma che te lo dico a fa) mai e poi mai mi sarei prestata anche solo ad aspettare un’amica al tavolo bevendo una cosa seduta da sola (NB ancora sto “da sola”, eccheppalle).

E qui invece è tutto normale. Mi sento proprio completamente nor-ma-le, a mio agio, serena, e per niente preoccupata. Certo, mi hanno raccontato in tanti, compreso il mio ex fidanzato, che la Nuova Zelanda è forse il più civile ed educato e sicuro paese al mondo (scoprirò qualche giorno dopo per quale tipo di “reati” i cittadini qui chiamano la polizia mentre guidi). Mi godo quello che sto vivendo e penso che davvero non vorrei essere con nessun altro qui in questo momento. Ci sono io, mi basto e mi avanzo, e forse vorrei anche pensare un po’ meno a tutto questo, che senso ha infondo?

Finisco la birra e dopo aver schivato un improbabile approccio da parte di un infreddolito abitante del posto, me ne torno in ostello (a prendere le pillole per il mal di testa, ovviamente).

Davanti alla porta scorrevole trovo gruppo di ragazzi e ragazze italiane che stanno fumando l’ultima sigaretta prima della buonanotte bevendo birra nelle tazze della cucina dell’ostello (scoprirò di lì a poco che è l’unico modo per bere negli ostelli, dove generalmente non sono ammesse bottiglie o alcool di alcun genere, e quindi, versata nelle mug, la birra potrebbe essere spacciata per un bel the inglese).

Mi fermo a chiacchierare con loro e rido per quasi un’ora (per non piangere): sono disperati, ma cosa ci siamo venuti a fare in Nuova Zelanda, a Wellington men che meno, fa freddo, abbiamo un lavoro che ci fa schifo e le persone che si vedono circolare per le vie interne dell’isola-tutta si contano sul palmo di una mano. Rido per non piangere, stavo tanto bene a Sydney, ma ero così contenta di venire qui, perché questi mi dicono così mo? In quel momento, attratto dalla sfiga che probabilmente i ragazzi si stanno tirando addosso da tempo, il suolo comincia a tremare. Ci guardiamo, guardiamo la gigantesca gru di fronte a noi e la vediamo oscillare, così come il grattacielo di fronte e i lampioni. Dopo qualche secondo passa, guardo di nuovo loro: ma…era un terremoto vero? Sì, scusaci, ci siamo dimenticati di dirti che qui ci sono pure i terremoti di tanto in tanto, non sai quando stai sdraiato sul letto di sopra del letto a castello quant’è divertente (sarcastici). Li ringrazio calorosamente per l’originale benvenuta nella terra del signore degli anelli, dei ghiacciai e dei vulcani e me ne vado a dormire. Non prima di aver mandato una mail all’autonoleggio dicendo di non venirmi a prendere l’indomani alle 8:30, meglio alle 16:30 (ero stata tanto ottimista al momento della prenotazione).

27 aprile 2015

Mi sveglio con tutta calma e guardo fuori dalla stanza, il cielo non è limpidissimo ma non piove. Cal, il ragazzo scozzese di ventanni che dorme nella mia camera, mi chiede se vogliamo andare a fare colazione insieme in Cuba Street e nel tragitto mi racconta di essere arrivato qui dopo essere passato da Londra, stato a Singapore e a Auckland per un po’ e che ora ha trovato lavoro in un bar qui in centro. Ordiniamo una english breakfast con birra (ormai è mezzogiorno, è un pranzo praticamente) e al pub gli chiedono i documenti: posso dirlo? Mi sento proprio una vecchiaccia bacucca, che ha iniziato questo giro del mondo tardissimo, tanto che è più strano il fatto che a me non chiedano i documenti rispetto al fatto che a lui sì. Ci salutiamo e gli auguro buona fortuna.

Torno in ostello e organizzo i miei averi in un modo più ordinato, non riuscivo più a trovare nulla, mi siedo poi nella cucina dell’ostello e prenoto online (con il mio fedelissimo iPad-di-tastiera-dotato) due delle attività per le quali non sto più nella pelle: la scalata del Tongariro (la Alpine Crossing) e la visita al set de lo Hobbit, chiamata Hobbiton. Non vedo l’ora di arrivare lì e il primo step è prendere la macchina.

Alle 16:30 un simpatico autista arriva davanti alla porta per portarmi all’autonoleggio: la trovo una cosa di un civile incredibile, considerando quanto poco ho pagato per noleggiare l’auto (c.a. 300NZ$ per una settimana, senza carta a garanzia e con assicurazione kasko). Io e la mia felpetta rosa shocking da cheerleader entriamo e salutiamo l’omino che, nel vederci, decide di prendere subito un manualetto intimandomi di leggerlo con calma prima di mettermi alla guida: Driving in New Zealand. Ma certo che so guidare, non si preoccupi! Mi abituerò alla guida a destra e a tenere sempre la sinistra in carreggiata, mi abituerò a fare le rotatorie al contrario e a uscire a sinistra dalle superstrade. E’ tutto sotto controllo! Posso farcela anche con i 100km/h di limite ovunque sempre e comunque e mai un chilometro orario in più.

flyer driving in new zealand
flyer driving in new zealand

Salgo in macchina, esco dal garage e mi accorgo di quanto non ci sia proprio niente sotto controllo! Grazie al cielo la macchina è automatica e non darò bracciate contro lo sportello alla ricerca del cambio, ma questa cosa della guida al contrario non si può fare, ho paura, aiuto, ucciderò qualcuno! Perché non ti fanno un rapido corso di guida prima?! Chi sono i pazzi che ti autorizzano a sterminare la già esigua popolazione del posto?! Morale della favola: alla prima rotatoria mi sono guardata bene intorno e per tornare indietro, piuttosto che mettermi a girare nel senso opposto sulla rotatoria stessa, opto per una sicurissima, romana-style, inversione a U. Giro per quasi mezzora nel quartiere perché non capisco come fare ad uscire dagli incroci ma soprattutto non supero mai i 10km/h. Gli altri automobilisti (3 in tutto eh, non vi aspettate il sovraffollamento nel traffico) mi guardano terrorizzati.

Dopo un po’ (non chiedetemi come, sto ancora cercando di superare psicologicamente quel momento) arrivo nel punto più alto della città: è consigliato su tutte le guide, le mappe, i cartelli e i siti web come una delle cose imperdibili da vedere qui.

Arrivo sul posto e sono convintissima di essermi sbagliata: nel parcheggio di questo famoso sito turistico ci siamo io, la mia macchina, la mia felpa da cheerleader, un cane, e (in lontananza) un vecchietto col bastone e la spesa. Altro che fila ai Musei Vaticani, fila alla Tour Eiffel, fila al non-so-che, qui non c’è anima viva!

Scendo dall’auto e salgo nel punto più alto della città più ventosa del mondo. Penso di stare rischiando di volare giù. E invece intorno a me vedo per la prima volta, nella foschia, le montagne gialle e verdi, il mare blu e più blu, la città adagiata in mezzo alle acque e resto a bocca aperta, pure un po’ spaventata.

panorama Wellington
panorama Wellington
panorama Wellington
panorama Wellington

Davanti ai miei occhi il cielo cambia colore, le nuvole cambiano colore e muovendosi gettano in ombra quello che prima era a fuoco e viceversa. E’ uno spettacolo incredibile, che solo grazie al vento di Wellington poteva essere reale.

Ma chi se ne frega di tutti i problemi? Della vita complicata, della storia complicata, del lavoro complicato; della vita bellissima che dovresti stare vivendo ascoltando chi ti guarda da fuori oltremare; chi se ne frega della tristezza e pure della sanità mentale che credevo di avere perso.

Sto qui e guardo quello che ho intorno, respiro a pieni polmoni e penso di essere piccolissima, vulnerabile, penso che se cadessi da dove mi trovo ora morirei in un secondo e qui non si preoccupano neppure di mettere una ringhiera di protezione, penso che non sia importante essere protetti né sentirsi protetti, penso che se ci penso un po’ di meno sto proprio bene.

La famosa felicità, quella di quando ti senti svuotato dentro da tutti i pensieri e sorridi, quella di quando non te ne frega niente di quello che sta succedendo dietro nel tuo cervelletto (che continua sempre a camminare), quella che se pensi a dove sei e a chi sei oggi ti abbracceresti da sola. Quella vera, credo. La felicità vera che stavo tanto cercando ha deciso di avvicinarsi a me e di farsi vedere, appannata ma reale, per un attimo, dentro la foschia della più Windy Welly Wellington di sempre.

…to be continued…

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