L’amore ai tempi del corona

Stare chiusi in casa per 60 giorni non è facile. Ma questo tanto lo sappiamo tutti, e ne sono certa perché questa pagina la sto scrivendo in italiano, e in Italia siamo tutti chiusi in casa da 2 mesi ormai.

Tutti, o quasi: ad eccezione dei miei vicini di casa, che colgono ogni festività per fare grigliate in cortile dal giorno di Pasqua. Pasquetta. 25 Aprile. 1 Maggio (oggi). Autogiustificandosi dicendo di non stare facendo niente di male, perché “tanto siamo tutti stati chiusi qui senza vedere altri”, quindi se nessuno si è ammalato nulla accadrà, “sarebbe già accaduto”. Stiamo solo mangiando, bevendo, festeggiando, ballando con la musica (a palla, ma soprattutto oscena), prendendo il sole e passando il tempo. 

Beh, vivo in un borgo, non è così difficile assembrarsi volendolo fare, basta mettere il piede fuori dal cortile per essere già tutti insieme. 

Ok, quindi, siamo (quasi) tutti chiusi in casa da 2 mesi, tutti, a parte loro.

E a parte quei genitori, che si vedono con gli zii per il pranzo della domenica dalla settimana 1. Ok, ma vivono esattamente dall’altra parte della strada. Per attraversare e citofonare, da portone a portone, dovranno fare sì e no 10 passi contati. E sono tutti isolati, e non malati.

Ok, tutti tranne i miei vicini e qualche famiglia.

Tutti gli altri, però sì. Lo capiscono. In casa per 2 mesi.

Ah no. Anche qualche figlio, che va a pranzo dai suoi la domenica. Ma vivono sulla stessa via. In 120 secondi è lì, con guanti, mascherina, senza parlare con nessuno per la via. 

E poi gli altri: che male c’è nel darsi un appuntamento al supermercato con una sorella? Sì, anche questa è storia vera. O chi mi impedisce di andare a prendere il pane, tornare, andare a prendere il giornale, tornare, portare fuori i cani, tornare, andare a prendere le sigarette. Tornare. Non parlo con nessun altro che non sia il commerciante. Di turno. Che quando li sommi tutti insieme sono molte più persone di quelle con cui parlavi prima, quando a uscire, potevi uscire. 

E poi ci sono io. Che dal 7 marzo, sera, dopo aver passato la giornata tra parrucchiere e estetiste, ho deciso di lasciar perdere. Come se me lo fossi sentita.

Che vivo da sola in 40 metri quadri, su due piani soppalcati, e un cortiletto esterno di 15. E non sono più uscita. Tipo mai. 

Io non lo so se ho esagerato, ma da quando questa cosa è scoppiata ho perso tutto l’interesse nel cercare di “andare avanti” in questa specie di mediocre purgatorio fatto di guanti in lattice, di non potersi parlare, di non vedere un sorriso dietro la mascherina, di non potere. Chi mi conosce lo sa, quanto posso essere esagerata nelle reazioni, ma anche capricciosa nelle mie cose: voglio questa cosa, mi metto lì, e ci provo fino a spaccarmi la testa.

Bene, io voglio solo che questo inutile limbo finisca. Non ho voluto vivere la fase 1, non voglio vivere la fase 2, ma manco la 3, la 4, 5, 10… non le voglio proprio vedere. Vorrei andare in letargo, addormentarmi come un orso marsicano e rivedervi tutti una volta finito.

E ci ho onestamente pure provato, a dormire dico. Pisolini alle 11, pisolini alle 14, pisolini alle 18, pisolini alle 21, pisolini di ore. 

Ma indovina un po’? Non funziona. Non ha funzionato per niente, o meglio, ho sicuramente ridotto il numero di ore di veglia, ma come tutte le cose che vuoi accantonare, appena apri gli occhi le ritrovi proprio lì dove le hai lasciate.

Ed è così che, frustrata da questa impotenza colossale, mi sono lasciata andare. Per davvero. Per la prima volta ho SERIAMENTE e TOTALMENTE lasciato andare tutte le mie emozioni, nel bene, nel male, nel medio. Così come sono venute, senza giudicarle, senza prendermela troppo a male, e cercando di passarci dentro. 

E ho fatto un sacco di cose. Altroché immobilità e letargo!

Ho ballato. Da sola, dentro casa, sulle note dei Ricchi e Poveri per essere precisi (e di Giancane anche). Con lo stereo a palla (sarebbe in verità l’echo dot, ma è veramente triste da leggere “con l’echo dot a palla”). Io, che spengo le luci, chiudo le porte e tiro le tende pure quando giro per casa in mutande, per la paura che qualcuno da fuori mi veda e pensi che sono pazza.

Ho cucinato. Due volte al giorno. Per (quasi) tutti i giorni di questi ultimi 60 giorni. E vorrei tantissimo che tu che stai leggendo questa cosa, se non mi conosci, ti andassi a vedere la puntata di Cortesie per gli ospiti in cui dichiaravo fiera a tutta l’Italia quanto mi facesse cagare cucinare a me. Quanto volessi supportare i delivery, e tutta la loro economia.

Ho pulito. Tutti i giorni. E l’ho pure trovato quasi meditativo. Quasi piacevole. Fonte di una così grande soddisfazione. Senza sentire la mancanza di Katy (che comunque mi manca eh, sia chiaro), ritrovandomi capace e appagata. Io, che ero arrivata poche settimane prima del lockdown a chiamare Marcello, una sorta di tuttofare a domicilio, un marito in affitto, per chiedergli se per 10 euro mi andava (giuro che è accaduto davvero): “A fare la spesa delle cose pensanti (il supermercato è al civico accanto), portare le buste a casa e mettere tutto nelle credenze e in frigo”. L’ho fatto per davvero, ci sono i testimoni.

Ho lavorato. Come sempre. Tutti i giorni, sedendomi davanti al pc esattamente alle 9 del mattino senza indugiare. Mai. Truccata, pettinata, vestita per bene (no, le tute io non le possiedo proprio, neanche una). Ho ringraziato e reso grazie per ognuna di queste giornate, pubblicamente, rompendo le balle a tutti e costringendoli a trovarci del buono pure in questa situazione. Passando anche il testimone quando davvero non avevo niente per cui rendere grazie, ma senza mai bucare questo appuntamento. 

Ho insegnato yoga. Tutte le settimane, tutte le domeniche. Anche quando ero stanca. Anche quando il mio umore era talmente a terra che non sapevo da dove cominciare, a parlare di felicità, gioia, cambiamento, libertà, amore. Eppure l’ho fatto. E rifatto. E ho amato ogni singolo adho muka che ho visto dentro a quel computer. Di 1, 2, 3, 4 piano piano, 12, 15 persone. Che mi hanno scaldato il cuore, fidandosi, mandandomi regali, impegnandosi, provandoci, ridendo, piangendo. 

Ho comprato dei fiori. E gli ho cambiato l’acqua tutte le mattine. Che poi, l’acqua dei fiori, non so se avete avuto il piacere, ma puzza. Ma tanto. Eppure non li ho fatti morire, stanno ancora qua. E me li guardo, e ci trovo dentro tutta la vita che il mio umore vorrebbe portarmi via certe volte. Vivere non è più vivere, ma per loro no. Per loro lo è. Per loro non è cambiato niente, basta che gli cambio l’acqua tutti i giorni.

Ho letto. Poco, meno di quanto avrei voluto. Ma ho letto. Ho scoperto menti geniali, che mi hanno fatto capire, ancora una volta, quanto poco strana sono. Quanto ce ne sono tanti in giro per l’universo per i quali le religioni sono tutte uguali, che senza spiritualità non si vive. Pure senza mettersi in ginocchio, odiare le etnie, mangiando maiali. Bevendo e fumando. 

Ho pianto. Ahhh se ho pianto. E da quanto non lo facevo. E quanto bene fa. Ma non tanto, che poi diventa auto pietismo. No, ho pianto un po’, per un’emozione, un mal di pancia, per urlare in modo diverso un vaffanculo al cielo perché mi manca la vita vera. 

Ho riso. Ma tantissimo. Ho riso per i primi 35 giorni buoni ininterrottamente, facendo spaventare chiunque mi chiamasse. Perché un regalo così, di fermare tutto senza fermare niente, quando mai me lo potevo sognare? Vivere la casa, con i miei tempi, curarla, curarmi, rigenerando ogni cellula singolarmente all’occorrenza. Respirando a pieni polmoni.

Mi sono innamorata in quarantena. Eh lo so, è tanto strano da leggere, ma è la verità. Mi ero già innamorata prima che questa cosa iniziasse, devo dire, ma mi sono innamorata di più durante il lockdown. “L’Amore ai tempi del corona”, come dicono le mie amiche. E questa non è probabilmente la cosa più assurda che ho fatto nella vita, già solo leggendo questo blog è abbastanza evidente, ma lo è proprio per il contesto invece. Il contesto stesso mi ha plasmata, e la mancanza di auto giudizio, di difesa della vita e dello status quo, hanno fatto tutto il resto. E ho cominciato a sorridere dal cuore, a parlarci da lì, ad imparare a dire ad alta voce “questa cosa mi fa stare male”, che sarà pure banale per tanti ma per me è tipo impossibile, perché tanto non cambia niente. Ma invece cambia, eccome se cambia. Mi sono accoccolata in una attesa, nell’attesa del cambiamento per il quale potremo finalmente viverci, piena di grandi speranze. 

Morale della favola? Ok: non lo so veramente se andrà tutto bene, non ne sono così sicura. Ma sono davvero certa che poteva andare molto, mooooolto, molto peggio di così.

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