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Part 5: Nuova Zelanda Tongariro, Taupo e Mata Mata, 4 giorni

28 aprile 2015

Mi sveglio di buon’ora a Wellington, pronta per la giornata in auto. Ieri sera ho deciso che guiderò fino al lago di Taupo e ho prenotato un ostello lì per la notte. Sono 370 km, ma il limite qui è 100km/h e io non ho comunque fretta, immagino quindi di arrivare lì per ora di pranzo partendo verso le 8:30 del mattino.

Una delle esperienze che più mi hanno consigliato di fare in Nuova Zelanda, e che più mi allettava come fase del viaggio, era quella di guidare, un sacco. Circondata dalla natura incontaminata, godendomi ogni istante del percorso.

E pensandoci mi rendo conto di quanto questo mi stia accadendo in parallelo anche nel cervello: goditi ogni momento, dai ad ogni istante un valore immenso ed assoluto, perché ogni ora passata a scervellarsi mentalmente nei problemi senza trovare soluzioni, ogni ora buttata ad impigrirsi sul divano, ogni ora lasciata andare nella distrazione della mente, non tornerà mai più. Mai mai mai. E l’unica cosa certa è che il nostro tempo di vita, dopo, sarà più breve di un’ora, di quell’ora sprecata senza darle alcun valore.

Lascio la città proseguendo su una statale a una sola corsia (ancora non so che sarà così fino a Auckland, per i prossimi 650 km quindi), senza guardrail e sulla quale non incontro cittadini per chilometri e chilometri. Sto iniziando a costeggiare l’oceano sul lato ovest dell’isola, senza vederne la fine ne di fronte ne al di là dell’acqua alla mia sinistra. Alla radio parte una strana versione americana di Volare che mi fa sorridere guardando il cielo blu.

E poi ad un certo punto faccio una curva, e al di là qualcuno deve aver passato la giornata a dipingere con colori fluo e pastello tutti gli alberi, il cielo e il prato. Non c’è anima viva al fuori delle pecore, e i Colori sono diventati i veri abitanti di questi luoghi. Senza che nessuno abbia dovuto fare niente per farli essere così.

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Che, di nuovo, è esattamente quello che penso di me oggi: non ho dovuto fare niente per essere come sono, mi sono lasciata finalmente andare, abbandonando le paure dentro al serbatoio del volo che mi ha portata dall’altra parte del mondo, e nel serbatoio sono bruciate facendomi arrivare libera e serena nel lato nuovo del mondo.

E da quel giorno ho vissuto ogni cosa esattamente così, serenamente e senza impormi nessun percorso prestabilito. Decidendo tutto oggi per domani, seguendo l’istinto e lasciandomi contagiare da quello che mi capita intorno. Una cosa quasi impossibile per una persona formata in agenzia a dover prevedere e prevenire, preconfigurare, predisporre, pre-tutto. Ma tutto quello che di bello c’è nei “pre”, abusandone, si perde e resta solo all’immobilità, mentale e fisica, e io mi voglio muovere. Tantissimo.

Sulla fedele Lonely Planet ho trovato le Huka Falls: delle piccole cascate sul fiume Waikato che, nonostante le non maestose dimensioni, sono di enorme fascino per la vicinanza da cui possono essere visitate e per la facilità di arrivo (c’è un parcheggio dove lasciare la macchina a qualche centinaio di metri di distanza dal punto panoramico). Non appena arrivo sul posto capisco il perché del consiglio, e, con la faccia da bimba felice, mi scatto una foto da sola in mezzo ad una folla di giapponesi incappucciati. E non me ne importa proprio niente di sembrare una pazza che si fa un selfie.

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Ricaricata, affascinata, emozionata e curiosa di scoprire sempre più posti e di provare sempre più emozioni, mi rimetto in macchina. Dopo molte più delle 4 ore previste dal piano arrivo al mio ostello a Taupo.

Ho scelto su booking.com il Taupo Urban Retreat perché era situato nel centro di Taupo, una nota località appoggiata sull’omonimo lago (il più grande lago d’acqua dolce dell’intera Oceania), i costi erano davvero bassi, le camere carine e sopratutto perché aveva un bar interno (molto utile se non vuoi fare la spesa di continuo). Tutte le mie aspettative vengono rispettate, e stasera proverò, dopo 17 giorni, a fare la mia prima lavatrice in ostello.

Ok, a Perth la prima settimana la mia santa cugina (e il suo esaurimento da mamma di grande sporcatrice di tutine e bavaglini) mi ha aiutata ad andare in giro come una persona normale con panni puliti usciti da lavaggio&asciugaggio ogni giorno, ma negli ultimi 10 giorni ho esaurito le scorte di maglie&intimo pulito quindi mi tocca. Non so se vi è mai capitato, ma fare la lavatrice in ostello non è facilissimo:1. ti serve il detersivo, e ovviamente non porti il fustino del Dash con te in viaggio, 2. ti servono delle monete, del taglio giusto e più di una, 3. devi aspettare che finisca per togliere subito le cose e metterle nell’asciugatrice. Probabilmente ero particolarmente rallentata dal viaggio ma alla fine ho chiesto 1. il detersivo alla reception, 2. le monete alla reception, 3. di aiutarmi a impostare i macchinari agli altri viaggiatori presenti nella caldissima stanza lavanderia. Ho deciso quindi di non provare mai più a rifarne una, grazie a dio dopo la Nuova Zelanda andrò al caldo di Bali e lì utilizzerò tutt’altri capi rispetto a maglioni di pail, jeans e calzettoni da scalatrice.

Nell’attesa che la lavatrice finisca prendo una birra al bar e aspetto il piatto della cena. Ed è così che mi ritrovo a giocare a beer pong sul tavolo da biliardo della sala comune con quelli che diventeranno, oltre che compagni di viaggio per i prossimi due giorni, anche dei buoni amici da continuare a sentire anche dopo il rientro in Italia. Con Dave e Mark decidiamo che un inglese, un’italiana e un olandese possono – e devono – vincere il quiz contest organizzato dal pub della porta accanto. E invece…gli Oasis (di cui non siamo riusciti a riconoscere Champagne Supernova con un ascolto di 5 secondi) e un gruppo di agguerritissimi giovanissimi turisti ci sfila il primo posto (e i 100 dollari in premio) dalle mani.

Passiamo la serata a chiacchierare di sport a me completamente sconosciuti (il cricket ad esempio, forse sono io ma davvero non ho mai visto una singola partita di cricket in vita mia, e ho chiesto proprio a Dave – il detective inglese che è ormai diventato il mio insegnate a distanza – se si trattasse di football americano, manca poco cade dalla sedia), e di quanto fosse divertente e strano allo stesso tempo passare una serata neozelandese a confrontarci sulle abitudini di ciascuno dei nostri paesi europei.

Vado a dormire contenta, nonostante il “The walking dead” che dorme nel letto sotto il mio in camera, era inquietante, giuro: avrà avuto vent’anni, secco come un chiodo e non-parlante. Temo avesse assunto qualche strana sostanza stupefacente che gli stava impedendo di riprendersi dall’hangover da giorni, avevo paura che si buttasse dalla finestra nella notte.

29 aprile 2015

La mattina dopo è ancora vivo, grazie al cielo. E Zombeggia ancora nell’ostello.

Me la prendo comoda facendo una passeggiata per il paese, passiamo al supermercato a comprare delle birre e di corsa nelle natural hot pools gratuite poco distanti dall’ostello. Fa freddo ma l’acqua è talmente calda che facciamo il bagno in costume senza pensare al momento dell’uscita (stavo congelando senza rendermene conto, ovviamente). Il tutto nell’attesa del giro in barca a vela di oggi pomeriggio. C’è il sole, mi va moltissimo di passare il pomeriggio in relax nel lago e passeggiando compro una super NZ felpa, che diventerà l’indumento più utilizzato fino alla partenza dall’isola.

Con David, dotati di felpette coordinate, arriviamo all’orario prestabilito davanti alla Barbary, la nostra centenaria barca a vela. Gli altri partecipanti sono già a bordo e con i mantelli indosso. Con mio enorme stupore, invece del solito marinaio navigato barbuto e mediamente anziano, troviamo una giovane donna che ha girato mezzo mondo e che, assicurandoci un giro davvero “particolare” (capiremo di lì a poco il perché), ci fa ridere a crepapelle con battute e barzellette in perfetto stile Kiwi.

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Iniziamo la navigazione esattamente come speravamo: relax, sole, risate e acqua tutto intorno a noi. Dopo poco però, ci rendiamo conto che i 616 chilometri quadrati del lago creano tra la costa e la parte centrale climi completamente diversi, le onde si alzano, il cielo diventa nero, piove a raffica e la barca inizia a ballare su se stessa fino a farmi arrivare con le scarpe direttamente nell’acqua. Sono quasi spaventata (e non mi spavento facilmente), ma la nostra sailor woman (oltre alla consapevolezza che in acqua non possono esserci animali predatori di alcun genere) riesce a tenere l’umore alto per raggiungere la nostra meta, le grandi pareti scolpite dai maori dall’altra parte della costa. E’ incredibile pensare che questa tribù può essersela rischiata così tanto per lasciare a noi la possibilità di vedere queste rocce e il loro messaggio.

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Sulla barca incontriamo Andrea, una ragazza americana che come me viaggia sola, e si unisce a noi per la cena con Mark e Dave. La serata scorre serena parlando dell’Impresa di domani: la scalata del Tongariro. Anche Andrea vorrebbe venire ma ha paura che il tempo non sia affatto buono e sconsiglia anche a noi di andare. Ma se avventura deve essere, avventura sarà. Sono praticamente venuta qui per fare questa traversata, e mi è rimasto solo domani per non sballare tutto il mio piano di viaggio, ho prenotato una guida (cara arrabbiata, e se ne poteva fare a meno) e tempo buono o no domani salirò in cima al vulcano per guardare da vicino le pendici del Mount Doom della Terra di Mezzo e ammirare Mordor dall’alto. Un film in sala cinema e a letto alle 21:00, la sveglia suonerà tra 6 ore e mezza.

30 aprile 2015

La sveglia all’alba apre le danze di quella che sarà una delle giornate più meravigliose di tutto il mio viaggio.

Tongariro Alpine Crossing è una camminata di 20km che dura una giornata, mediamente 7 ore, dalle 8/9 del mattino alle 16 di pomeriggio. Ci sono una serie di “precauzioni” che è necessario prendere: portare cibo, acqua, bevande energizzanti, barrette, avere scarpe da trekking, felpe calde e giacca da neve e una macchina che ti venga a prendere all’arrivo per riportarti al punto di partenza.

La mia vita sedentaria, non allenata, da fumatrice e guidatrice di Smart a Roma non è di certo il profilo classico di chi affronta quella che è una delle Great Walks del mondo, considerata come una delle cose che non puoi non aver fatto una volta nella vita, ma incredibilmente ce l’ho fatta.

Con difficoltà, tra la neve in vetta e il caldo a valle, la pioggia nella foresta per le prime 3 ore, e la scalata alla cima, ripidissima e dove cadere è davvero facile. Ma trovarsi di fronte ai tre Emerald lakes, al Blue Lake, tra crateri vulcanici attivi (e che hanno eruttato appena qualche anno fa), per riuscire finalmente a vedere il Mount Ngauruhoe (divenuto famoso come il Monte Fato del Signore degli Anelli) e la valle ai suoi piedi, non ha davvero alcun prezzo. Vale la fatica, il sudore e la paura, la scalata con le corde e le pareti ghiacciate, vale tutta l’impresa.

E la discesa al di là, per arrivare al “punto di fine”, ti da tempo e modo per riflettere su te stesso, sulle capacità che non credevo proprio di avere, sulla resistenza che il tuo corpo può avere se la mente glielo chiede con forza, sul fatto che “ce la posso fare” è la chiave proprio di tutto. E io ce l’ho fatta, ce l’ho fatta a fare questo, ce l’ho fatta a mollare tutto e partire, ce l’ho fatta a farlo da sola rispondendo di tutte le decisioni che ho preso e degli errori che ho commesso, e affrontandone le conseguenze. E ne sono uscita, guardando sempre a testa in su verso il passo successivo.

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Rientro alla base, una cena veloce e una birra chiudono la mia giornata. E dormo serena, molto più serena del solito, respirando a pieni polmoni tutta l’aria meravigliosa e pulita che ho intorno a me. E non c’è nemmeno più il Walking Dead.

1 maggio 2015

Oggi si parte alla volta di Hobbiton, il paese dove hanno girato la Contea del signore degli anelli. Lo so, è davvero la cosa più turistica del mondo, ma non ho potuto resistere a vedere casa di Frodo e Bilbo, ognuno c’ha le sue.

Prendo la macchina e con la musica alta e il finestrino spalancato, cantando a squarciagola tra le pecore, mi dirigo verso nord verso Mata Mata. Niente potrà fermarmi, sono in cima al mondo nel mio cervello, non ho fretta, è tutto meraviglioso e voglio godermi tutto quello che ho intorno momento per momento.

Ok, momento per momento, cima del mondo, libertà…sirene. Come sirene?! Sirene spiegate della polizia dietro di me che mi intimano di accostare. Sono terrorizzata, che sarà successo per far arrivare la volante di corsa con sirena e luci spiegate?

In una frazione di secondo mi vengono in mente tutte le storie terribili che ho visto su Crime Investigation, con ragazze in viaggio da sole nei posti più sperduti del mondo, che si ritrovano arrestate perché ignare di trasportare droghe o per essere sospettate di terrorismo internazionale perché qualcuno sta usando i loro documenti in qualche paese chissà dove.

“Signorina, spenga il motore e mi consegni le chiavi dell’auto”. Il poliziotto fuori dal finestrino è serissimo, sembra una puntata di una serie televisiva per quanto la situazione è assurda e la mia faccia deve dire esattamente quello che sto pensando perché insiste “Non è uno scherzo, mi dia le chiavi”. Eseguo gli ordini e aggiunge “Adesso andrò a parlare con l’auto ferma dopo la mia perché un testimone ha chiamato la centrale”.

Come ha detto scusi? Un testimone? Testimone de che? Una pecora forse, non c’erano anime vive per centinaia e centinaia di chilometri e adesso qualcuno dietro di me ha addirittura chiamato la polizia? Convinta di non aver fatto proprio nulla resto ferma in macchina. Il neozelandese riparte e il poliziotto torna da me per comunicarmi quanto segue: “Allora, il cittadino neozelandese che è appena andato via ci ha chiamati perché dice di averle visto toccare la striscia bianca centrale con la ruota destra della macchina, rischiando di invadere l’altra corsia per un paio di secondi. Le risulta?”.

. . . . Sono sconvolta e non so cosa rispondere. Cioè, uno dietro di me ha chiamato la polizia perché ho toccato, per un secondo, la striscia centrale che divide le corsie? Non so da dove cominciare: 1. vivo a Roma, questo per noi è un upgrade di guida, invadi e conquista! 2. non ricordo di aver toccato quella striscia 3. seppure l’avessi toccata per un secondo, quale grave reato avrei commesso? Non c’era davvero nessuno, e non ho guidato contromano.

Ovviamente, vista la faccia del poliziotto, tutto questo non lo dico e chiedo solo cosa mi sarebbe successo in caso di risposta affermativa. “Devo toglierle l’auto e deve proseguire in bus. Non vorrà mica morire in Nuova Zelanda perché io non le ho impedito di continuare a guidare in questa maniera sregolata, vero?” Morire? Dai, ma sul serio? Morire? Non voglio fare l’italiana che cerca di corrompere il poliziotto all’estero, per cui gli comunico terrorizzata che ho già pagato l’auto, che ho un tour pagato a 200km da qui tra tre ore e che tra due giorni andrò via e l’auto mi serve per arrivare a Auckland (e non aggiungo quello che il mio cervello sta strillando da minuti e minuti: autobus? Ma ti sei visto intorno? Siamo nel deserto più totale! Dove trovo un autobus?). Decide di seguirmi per vedere come guido e poi decidere. Guido come se stessi facendo di nuovo l’esame di guida, sistemo gli specchietti e parto piano piano. Arriviamo in un parcheggio, mi fa salire sulla sua auto e insiste sulla faccenda della morte e del bus. Chiama il suo capo “Sì, donna, 28 anni, nazionalità italiana, no signore, sì signore, va bene signore”. Mi fa una multa, di 150 dollari, citando il reato commesso “Fallimento nel tenere la sinistra”. Sul serio.

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Pensando a quanto davvero al criminalità in questo paese sia bassa – livello 0 direi, arrivo a Hobbiton e gli Hobo Holes conquistano tutta la mia attenzione. Peter Jackson, quel pazzo di Peter Jackson, ha fatto aggiungere e colorare foglie a dei già-verdissimi alberi qua e là. Le case degli hobbit sono tutte lì, minuscole come sperato. E’ come un grande parco giochi naturale per adulti.

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Arrivo a Rotorua, nell’ostello scelto insieme ai nuovi amici di Taupo, il Crash Palace Backpackers. Loro sono in giro per villaggi Maori e mi ritrovo a chiacchierare in cucina con Sara, una ragazza italiana della mia età che ha lasciato tutto per venire a vivere qui per un po’, preparando “Pasta Bolognesi” gratis per tutti. La serata passa veloce giocando a biliardo, chiacchierando con Gustavo – uno dei nuovi compagni di camera (che diventerà uno degli amici più cari del viaggio) – e continuando la scoperta di questa nazione grazie a Rob, un kiwi 100% che ha scritto un libro sull’essere uomo in Nuova Zelanda, Project Wildman. Lui e il suo “Frigo Tour” per la promozione del libro mi fanno ridere a crepapelle, e sono una delle cose più divertenti di tutta la mia vacanza. Mi giro e non credo ai miei occhi: il Walking Dead è arrivato qui. Aiuto, ditemi che non dorme di nuovo in camera con me!

Domani sarà l’ultimo giorno di viaggio in questa terra, e sono emozionata dal non sapere come andrà a finire. Mi guardo indietro negli ultimi due giorni e mi rendo conto che tutto quello che ho fatto in 24h rimarrà nella mia memoria come un anno di vita. Ho visitato posti incredibili, vissuto esperienze emozionanti e conosciuto persone stupende. Ho chiuso fuori tutta la mia vita, senza neanche rendermene conto. Come si farà a rientrare alla scrivania in ufficio con il Blackberry impazzito di email, o in casa gestendo la separazione dalla storia più importante di tutta la mia vita? Si può tornare a quella che chiamiamo “realtà” dopo esserne uscita così totalmente? Di una cosa però sono certa: la “realtà” è tutt’altro che una cosa statica, immobile, paralizzante; deve essere una cosa che si muove e voglio che cambi, spesso, che mi ridia la linfa vitale ogniqualvolta sarà necessario, continuando a guardare sempre avanti e con la mente lucida.

E’ finito il tempo del torpore, benvenuto movimento!

…to be continued…

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