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Part 6: Nuova Zelanda, Rotorua, Waitomo Caves & Auckland, 2 giorni

2 maggio 2015

Quando ho cominciato a scrivere questo blog non avevo idea di quanto il mettere giù parola dopo parola tutto quello che ho vissuto, pensato e fatto sarebbe stato importante per la mia vita di oggi. Quanto ogni cosa che racconto, sperando che là fuori qualcuno la legga e la trovi divertente o interessante, avrebbe cambiato il modo di approcciarmi alle esperienze vissute e mi avrebbe fatto riflettere ancora di più a tutto quello che ho provato in quei giorni.

Perché la verità è che quando sono partita dentro di me c’erano immense paure, ansie e incertezze, relative a tutto quello che stavo capendo della mia vita, relative alla sempre più crescente voglia di lasciare tutto e ricominciare una vita nuova, relative al “Cosa penserà la gente di me sapendo che vado a fare una cosa così, da sola oltretutto?”, relative al “Non sono una maturanda/laureanda in cerca di amici nel mondo, sono una persona che ha un lavoro, che lo ama, che ha una vita definita, che l’ha costruita con fatica giorno dopo giorno, e che però ha deciso di staccarsi per capire dov’è il problema”. Capire dove è il problema, ecco qual’era il problema (scusate il gioco di parole).

Probabilmente il problema ero proprio io. Ad oggi posso dirlo con certezza, all’epoca era solo una zanzara fastidiosa che rovinava i miei momenti più belli o i grandi pensieri filosofici della sera dopo l’ultimo Jager ghiacciato. Il problema ero io che non volevo accettare (o anche solo minimamente pensare) di non stare facendo le scelte giuste. Giuste per me (giusto in valore assoluto non ha alcun significato). Le scelte più giuste di cui non pentirmi, le scelte giuste grazie alle quali fantasticare su un futuro felice, le scelte giuste per rispettare la persona che c’è dentro questo involucro di carne che porto a spasso tutti i giorni. E oggi fantastico eccome.

Il 2 maggio mi sveglio a Rotorua con un grande torpore cerebrale: oggi sarà l’ultimo vero giorno nella terra dei colori fluo e delle distese di pecore, e questa cosa mi dispiace da morire. Riempirò la giornata il più possibile per godermi fino alla fine questo paese che mi ha dato il tempo e il modo di svuotare la testa, pensare, respirare, prendere multe e scalare i vulcani, mantenendo sempre il baricentro sul cuore, al centro del mio corpo.

Con Rob, il kiwi scrittore di libri in tour con il suo frigo di casa, e Gustavo, il ragazzo brasiliano che aveva lasciato il lavoro in pubblicità per fare il giro del mondo (e che ad oggi è approdato a San Diego, good luck!) decidiamo di seguire il consiglio di Sara e andare a fare una passeggiata per le valli di zolfo di Rotorua. Sarebbe dovuta essere una bellissima passeggiata tra crateri e saune naturali dove fare bagni rilassanti, visitare villaggi maori e passeggiare nei parchi…se non fosse che invece di girare a destra abbiamo preso la stradina a sinistra e ci siamo ritrovati in un paesaggio lunare (dove piccolissimi invisibili cartelli avvertivano di non passare con le scarpe, piccolissimi, direi impercettibili) dove il terreno come sabbia mobile sprofondava sotto i nostri piedi ad ogni passo agganciando scarpe e ciabattine, per approdare poi in un lembo di terra costeggiante uno zolfato puzzolente rivolo d’acqua dove grazie ad un pallone di fortuna trovato su un albero abbiamo improvvisato un triangolare nz/brasil/italia di calcetto (NB sono stata ovviamente – facilmente – battuta cento punti a uno. Da ciascuna nazione. Perdonatemi connazionali!).

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Un pranzo veloce e, con il fedele copilota brasiliano, partiamo in direzione sud alla volta delle famosissime, incredibili, magiche Waitomo Caves.

Come sempre le partenze sono un colpo al cuore e mi provocano enormi dispiaceri: conosco queste persone da pochi giorni, ma in poco tempo ci siamo raccontati e sfogati gli uni con gli altri fino a tarda notte, fino a capirci e aiutarci, fino a intristirmi sul serio al pensiero di andare sapendo che loro resteranno qui, insieme, condividendo le giornate, mentre io andrò avanti da sola con le mie eplorazioni. E non posso non riflettere sul fatto che negli ultimi dieci anni ero diventata una roccia, che faceva scudo a tutte le aperture umane profonde, e solo oggi mi rendo conto di quanto la socievolezza di questi anni sia stata sempre superficiale, sempre bloccata prima poco prima del “nocciolo” del cuore, sempre frenata per non essere ferita o non rimanere delusa dalle persone. E questo rende questi addii ancora più dolorosi, perchè qui, inspiegabilmente, spontaneamente, senza dovermi applicare in alcun modo, ho lasciato entrare queste persone e mi sono appassionata alle loro vite in maniera profonda, sincera, aperta. E so che le distanze e le vite frenetiche di tutti non permetteranno a queste amicizie di restare vive come vorrei, e già mi dispiace.

Ma sorrido comunque, sapendo che tutte le volte che penserò a loro, a questi momenti, tra due, dieci, cinquanta o cento anni, mi tornerà questo sorriso sulle labbra, ringraziandoli da sola per tutto quello che hanno condiviso con me. E sorrido. E sono proprio felice.

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Dopo un paio d’ore in auto arriviamo alla nostra meta: chiamate anche Glowworm Caves, le Waitomo Caves sono delle enormi grotte calcaree formatesi 30 milioni di anni fa sotto terra e divenute famose perchè i suoi abitanti, degli insettini minuscoli chiamati glow-worm che vivono di anidride carbonica, formano grazie al loro luccichio una specie di cielo stellato sul soffitto delle grotte nel buio più nero di qualsiasi normale notte terrestre.

Per arrivarci una kiwi old style ci fa salire faticosamente su una barchetta, non dotata di motore e, per non disturbare i glowworm e non modificare l’ecosistema delle pareti delle grotte, trascina la barca attraverso delle corde sospese nel vuoto dell’acqua, creando un’atmosfera quasi spirituale, nel buio completo e in silenzio. A nessuno viene in mente di dire una parola, è come se realmente ci sentissimo tutti dentro un santuario naturale, non vogliamo disturbare questi insettini, ma solo guardare in alto questo cielo stellato sotto terra e pensare ognuno al proprio cielo, a migliaia di chilometri di distanza, senza farsi domande.

 

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Usciamo dalle caves e riprendiamo la macchina in silenzio, ancora esterrefatti dall’esperienza mistica appena conclusasi. Siamo diretti a nord, al super nord, al più nord del nord, verso Auckland, a 200km di distanza. Per non fare tutto di corsa avevamo preso i biglietti per le grotte alle 18 e tra tutto stiamo ripartendo alle 19:30. Per cena (ad orari Italo/Brasiliani, non di certo neozelandesi, qui alle 19 ci si mette a tavola) dovremmo essere in città.

Guidiamo ridendo dei commenti che i contatti su Facebook fanno delle foto e dei check in, raccontandoci le nostre vite, come se fossimo amici da sempre e come se ogni cosa che raccontiamo possa essere contestualizzata e capita davvero dall’altro, nonostante sia impossibile. E penso a questa cosa: tutto quello che diciamo, tutto quello che pensiamo di noi stessi e raccontiamo al nuovo amico in cui ci siamo imbattuti sulla via, definisce e racconta una percezione delle nostre vite che non sempre è lo specchio negli occhi dell’altro di quello che la realtà è. Racconto a Gustavo della mia vita e del perchè sono finita qui, nel posto più deserto della terra, a infilarmi dentro alle grotte per vedere un cielo stellato, racconto dei miei problemi e di tutto quello che vorrei che questo viaggio fosse per me, e lui fa altrettanto, descrivendo la sua vita prima di partire per il giro del mondo, di persone che l’hanno ferito o fatto incazzare, ma in fondo nessuno dei due riesce ad immaginare l’altro in un contesto ordinario, perché la persona che hai di fronte nel mezzo del tuo percorso, del tuo viaggio, della tua esperienza, non è la stessa persona che ogni mattina scende dal letto alle 8:00 per prendere il caffè e andare in ufficio. Non può essere la stessa persona, perchè qui ognuno è davvero un isola in cerca di un mare, che non si sa dove sia, nè se esiste davvero. E’ come essere alieni sulla propria Terra, guardando con occhi alieni e pronunciando parole aliene che mai ti sarebbero uscite fuori dalla bocca.

In questo fiume di racconti arriviamo a Auckland: siamo sicuri di essere ancora in Nuova Zelanda?! Niente più pecore e casette, riecco traffico, grattacieli e affollamento. Una città vera, quasi mi ero dimenticata come fosse, e quanto stressante fosse. Sono così contenta di aver scelto Auckland come ultima meta in NZ: sarei rimasta tanto delusa scendendo dall’aereo, pensando di trovare la Terra di Mezzo, e ritrovarmi invece in una grande, normale, metropoli occidentale.

Ceniamo giappo e accetto di buon grado il favore di utilizzare la doccia del piano dell’ostello che Gustavo ha prenotato prima di dirigermi in aeroporto. Ho il volo alle 6 del mattino, e devo riconsegnare la macchina prima di fare il check in. Faccio una lunga doccia, mi asciugo i capelli con tutta calma, rimetto apposto i vestiti nei bagagli e mi allungo sul secondo letto per fare un piccolo pisolino pre-partenza.

3 maggio 2015

Svegliaaaaaaaa Fraaaaaaaaa, hai perso l’aereo! Come ho perso l’aereo? Mi sono appisolata solo un secondo! Sono le 6 del mattino e io sono ancora in centro città. Come poteva non capitarmi d’altronde, mi sta bene come punizione per aver comprato un biglietto aereo alle 6 del mattino, ma cosa mi avrà detto il cervello?! Esco di corsa, lancio tutto in macchina e vado verso l’aeroporto.

Benzina, devo fare benzina prima di riconsegnare l’auto. Arrivo nella stazione di servizio più vicina e faccio il pieno. Entro nell’ufficio per pagare, do la carta al ragazzo, passa la carta nel lettore…e la carta non va. Come non va?! No signorina mi spiace ma non funziona. Non ho neanche il tempo di rendermi conto di quello che sta succedendo perchè devo correre in aeroporto a cercare un nuovo volo, sperando che la carta si riprenda… Lascio tutti i dollari neo zelandesi rimasti e gli ultimi euro (che per fortuna mi ero lasciata convincere di portare con me dall’Italia!) e in fretta e furia arrivo in aeroporto. C’è un volo diretto a Melbourne, la città del mio scalo pre-Bali, che parte in un’ora. Perfetto. Consegno la carta, e la ragazza sorridendo mi dice: Mi spiace, ma non funziona. Sono nel panico: come farò da qui ai prossimi 15 giorni, in Indonesia, senza soldi e senza carta? E sopratutto, cosa diamine è successo? Apro il conto online e sembra tutto in ordine, ma la capacità intellettiva , custodita gelosamente sotto la calotta cranica zeppa di stupidità del mio cervello, mi fa pensare che probabilmente il plafond è terminato, non si sbloccherà fino al 5, ossia dopodomani. Già meglio, due giorni senza soldi invece che 15. Urrà!

I miei genitori mi prenotano il volo online e riesco quindi fortunosamente ad arrivare a Melbourne, again. Devo attendere qualche ora qui, il mio volo parte verso le 21, troverò qualcosa da fare girovagando per i terminal. Faccio il check in dei bagagli e la hostess sorridendo mi chiede: Pagherà in dollari o in rupie per entrare in Indonesia? Non capisco, come ha detto scusi? Ripete la domanda e capisco che sono definitivamente fregata. Non mi faranno entrare perchè non ho, e non posso prelevare, e non avrò quindi una volta atterrata lì, i 35 dollari USA necessari al visto turistico. Questo sì che è un bel casino. Dopo un paio d’ore di tentativi falliti tra bancomat (che ovviamente non funziona essendo un circuito solo italiano) e mastercard (che non ne vuole sapere di farmi di eccedere il plafond) non so più che fare. Avevo una carta prepagata, che avrei potuto ricaricare dal conto online, ma ovviamente dov’è? A Perth. In valigia. Che idiozia.

Ed è così che conosco Kath: Kath è la salvatrice del mio viaggio. Ora posso dirlo. Kath lavora in aeroporto in un banco di cambio, e dopo aver capito e ad aver cercato con me una qualsiasi soluzione per farmi entrare in Indonesia legalmente, decide di prestarmi i 35 dollari. E altri 50 euro per le emergenze dei due giorni a venire (50 euro in rupie, ero quasi milionaria quindi!). Le giuro sulla tomba del nonno che le restituirò i soldi il 5 stesso, non appena la carta riprenderà a funzionare (le ho ovviamente inviato indietro il doppio dei soldi che mi ha prestato, doveva sapere di essere stata la mia salvatrice!).

 

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Bene, ho i soldi, ho fatto il check in, posso attendere comodamente al gate la partenza del mio volo. Non vedo l’ora di arrivare a Bali per buttarmi in acqua e togliermi definitivamente di dosso giacconi e pantaloni…isola, sto arrivando!

E invece no. Ovviamente! La lunga giornata in the terminal non sta per finire. Non finirà proprio oggi. Il volo inizia ad accumulare ritardi, ci danno dei voucher per cenare.

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Torniamo al gate, il volo continua a prendere ritardi….tra improperi generali e un brusio tanto familiare a noi italiani ma davvero sui generis per questi calmissimi abitanti del nuovo mondo, a mezzanotte ci comunicano che il volo è stato cancellato e che ci porteranno in un albergo vicino dove passeremo la notte e berremo qualcosa. Rimandato a domani, il bus ci prenderà alle 7 per tornare in aeroporto e finalmente partire.

Ah, ovviamente prima dobbiamo recuperare i bagagli, fare un’ora di fila per attendere lo shuttle bus e poi, solo poi, potremo davvero andare a sdraiarci sul letto e riposare per le restanti due o tre disponibili.

Sono stanca, arrabbiata e preoccupata, e tutto questo non mi piace. E tutt’a un tratto arriva Andu, un indonesiano che insegna Yoga a Melbourne e sta tornando a casa per trovare la famiglia, che tra racconti di cimiteri con carcasse a cielo aperto, locali Dragon Fly sperduti per la campagne balinesi, ristoranti javanesi e sim prepagate di nome Sympatie mi fa completamente dimenticare del dramma per riprendere il vero mood di questo viaggio: l’avventura! Per cui, avventura sia.

Mi addormento felice, pensando alla notte di domani, in cui sarò sdraiata in costume guardando l’oceano, mangiando Nasi Goreng e bevendo Bintang, come una vera ragazza Balinese che guida motorini e gioca a biliardo.

Ma tutto questo non posso saperlo oggi, lo scoprirò domani, non appena lasciata la terra down under di passaggio dalla terra di mezzo, per approdare nell’isola del riso, della magia e dello Yoga. L’isola che resterà per sempre attaccata come una cozza al cuore, l’isola che mi cambierà da dentro e definitivamente.

…to be continued…

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