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Part 7: Bali, Kuta, Seminiak, 3 giorni

4 maggio 2015, Bali, Indonesia

Dopo un’interminabile giornata trascorsa girando per gli aeroporti di mezza Oceania, perdendo e prendendo voli in Nuova Zelanda e in Australia, tra soldi finiti e soldi recuperati, atterro finalmente a Bali, Denpasar.

Sono ormai passati 24 giorni dalla partenza da Roma, da quella partenza che sembrava tanto una fuga e che si è invece rivelata essere la più importante di tutte le decisioni prese in questi quasi 30 anni di vita.

Scendendo dall’aereo mi accorgo che finalmente il disgelo in me e nei miei bagagli sta per avvenire: qui FA CALDO! Alleluia alleluia, che la quarta e ultima stagione abbia inizio!

Entro nel terminal e mi ritrovo in uno scenario da favola: c’è un giardino, di quel verde risaia che scoprirò affollare (quasi) ogni angolo di questa isola. L’aria è un misto tra densità e calore, e cibo. Mi era mancata la voglia di cibo, quella voglia che ti sale da dentro sentendo il profumo nell’aria.

Vorrei continuare a raccontare di come ho pagato dei ragazzini scambiandoli per tassisti e di come ho poi costretto il vero tassista alla ricerca dei due per recuperare il suo giusto compenso (anche qui, nel bel mezzo dell’Indonesia, sono riuscita a rompere le scatole ad un poverino che non c’entrava niente, sì, sorridendo!).

Ma non lo farò, non mi dilungherò a raccontare di questo, perché quello che voglio dire è:

Ci ho messo 1 anno a scrivere di Bali.

Aggiornamento: ci ho messo 2 anni a scrivere di Bali. 

E le vere motivazioni non sono quelle che mi sono data finora, giorno dopo giorno, mentendo a me stessa prima che a tutti gli altri, ossia che le giornate sono diventate sempre più piene, le cose a cui pensare sempre di più, il tempo che non basta mai.

La verità è che Bali è stata un sogno e per parlare di sogni ci vuole tempo, sì, ma prima di tutto ci vogliono gli occhi sognanti. E in questi mesi io quegli occhi sognanti mi stavo dimenticando di che sensazione dessero da dentro, quel luccichio che ti fa quasi scendere le lacrime se ci pensi tanto intensamente.

Bali è stata uno di quei sogni che non riesci a raccontare perché non sai da dove cominciare, né tantomeno come finire.

È stato per me un luogo che è diventato esso stesso cosa, esperienza, dove la vita mi è sgorgata dai pori incondizionatamente, senza sensi di colpa, depurata da tutte le ansie della vita quotidiana, un luogo dove solo il legame col mio baricentro era esso stesso crescita, avvicinamento alla felicità vera.

Non sono solo le persone, come in Australia, o i luoghi, come in Nuova Zelanda, a fare di un percorso il tuo percorso: ci sono momenti in cui tutto quello che credi sia importante, vitale per certi versi, non lo è più, affatto, e puoi prendere e tirare un vero e proprio calcio nel sedere a tutto e liberarti, scrollandoti di dosso ogni cosa.

Per imparare finalmente a respirare.

E Bali per me è stato esattamente questo.

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Ma come tutte le cose importanti e piene di significato, prima deve esserci un po’ di avventura, di caos, di scioccante accettazione della realtà, per poi risalire la scalata verso la felicità, ed è esattamente così che questa storia ha inizio.

Con me che arrivo in taxi accaldata in hotel, nel centro di Kuta, prendo le chiavi e mi dirigo verso la stanza, e trovo questo:

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Se guardando la foto hai un dubbio te lo tolgo subito: sì, la mia camera si chiude con un bel lucchettazzo di ferro da catena old style.

Sì, la porta sembra quell’armadio di tua nonna che speri non rientri mai nell’eredità, e sì, i tarli si sono mangiati quasi tutto il legno.

Ma c’è qualcosa di ancora più esilarante da vedere prima: la strada fronte camera, di cui ovviamente abbiamo una diapositiva:

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Anzi due:

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Se anche tu come me, caro lettore, avevi in mente la Bali dei film e delle foto su Instagram, con le spiagge bianche, le risaie, la giungla verde e i cappelli bianchi, capirai la mia somma incredulità trovandomi di fronte a contanto abbrutimento urbanistico. E puoi immaginare la quantità (e la qualità) di turisti che riempiono le sue strade.

Un incubo. Altro che sogno, di quegli incubi che mentre ancora dormi speri arrivi tua madre a passare l’aspirapolvere in camera pur di svegliarti di soprassalto e farlo terminare.

Ma, ricordiamocelo sempre, questa è un’avventura. E per sua natura quindi deve avere degli alti e dei bassi, sennò non ci si stupirebbe mai della risalita.

Quindi, armata di santa pazienza, decido di aggirarmi per le strade e di buttarmi in spiaggia, fedeli havaianas arancioni ricordo di Rio al seguito.

Passo attraverso un mall e arrivo finalmente sulla riva, si inizia a ragionare: mi mancava il mare, mi mancava l’odore del mare, la sabbia tra le dita, le camminate lunghe come sulla West Coast, saltando sul tramonto con Federica.

Il vestito che indosso è quello che abbiamo comprato insieme a Hillary’s l’ultimo giorno di permanenza a Perth, e anche se adesso non posso saperlo, diventerà il simbolo di questa ultima parte del mio viaggio.

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Mi siedo per godermi l’aria e la ritrovata calma, due bambini buffamente vestiti, mano nella mano di fronte a me, mi riportano con la testa al perché sono qui, a come ci sono finita, a cosa ci sto a fare.

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Camminando arrivo nel tipico turistico bar per surfisti, il Surf Cafè Bali. Come tutti i locali qui, lo spazio ha grandi tavoli per socializzare ma le pareti sono aperte: la temperatura oscilla tutto l’anno tra i 26 e i 29 gradi, non c’è alcun bisogno di costruirle, non farà mai freddo da dover stare “al chiuso”.

Così come io mi sono stufata di stare al chiuso, se la vogliamo dire tutta: ho vissuto per quasi tutta la vita all’interno di “posti”, la casa, l’università, poi l’ufficio e di nuovo la casa. I 2/3 della mia vita si svolgono all’interno di quattro mura, che siano le 8 ore in ufficio o le 8 ore di sonno, sempre di non stare vivendo quel momento di pigrizia invernale che ti tiene al chiuso anche per le ultime 8 ore rimanenti.

I luoghi chiusi ci danno sicurezza, ci fanno sentire protetti, ci danno l’idea che non potendo essere “assaltati” fisicamente, impediranno anche a noi stessi di farci assaltare dall’esterno.

Ma la verità è che essere al mondo per vivere dentro a una scatola è forse la più grande dimostrazione di quanto poco bene vogliamo alla nostra vita, a noi stessi.

Una cosa che ami vuoi che sia libera, che vaghi, che scopra… e allora amati e butta giù queste inutili pareti!

E proprio nel mentre che sono in preda a questi pensieri rivoluzionari, ecco che la vita arriva e mi strattona: Hello! Come with us beautiful girl! What are you doing eating there, alone?

Il tavolo accanto: un paio di australiani e diverse ragazzi balinesi, bellissime, che si stanno già stringendo certe del sì che sto per dire: Ok, I’ll join you! 😀

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